Presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, Brutti e Cattivi, esordio alla regia dello scenografo Cosimo Gomez, è una commedia nera d’azione, cinica e dissacrante, che mette in scena una gang di disabili criminali.
Dark comedy bizzarra, Brutti e Cattivi è ambientata nella periferia di Roma dove un mendicante paraplegico soprannominato il Papero (Claudio Santamaria), con la complicità di sua moglie, una bellissima donna senza braccia detta la Ballerina (Sara Serraiocco), del suo accompagnatore, un tossico rastaman detto il Merda (Marco D’Amore), e di un nano rapper il cui nome d’arte è Plissé (Simoncino Martucci), mette a segno una rapina nella banca dove il boss di un potente clan mafioso cinese nasconde i proventi delle sue attività illecite. Dopo il colpo però le cose si complicano: ogni componente dell’improbabile banda sembra avere un piano tutto suo per tenersi il malloppo.
Cosa funziona in Brutti e Cattivi
Al suo esordio, il regista Cosimo Gomez, realizza un’opera pulp, fieramente di genere, coraggiosa e politicamente scorretta, ai limiti del trash. Le intenzioni sono interessanti: parlare di uguaglianza e di diversità raccontando una storia cinica, popolata da personaggi “brutti e cattivi” per l’appunto, che danno vita a una serie di inseguimenti e vendette, tradimenti ed esecuzioni. E nella prima parte il film si rivela davvero irresistibile, grazie al suo tono spregiudicato e ai suoi protagonisti fuori da ogni schema. Grandissimo è stato il lavoro sui personaggi, tutti portatori sani di dolore, arrabbiati con la vita. La capacità di sdrammatizzare sulle loro sofferenze, costruendo protagonisti grotteschi dalle azioni così esasperate tanto da virare la percezione dello spettatore, portandolo non a empatizzare con il loro dolore, come accade solitamente, ma a sentirsi disturbati dalla loro innegabile strafottenza.
Perché non guardare Brutti e Cattivi
Alla cura per i personaggi non corrisponde, però, uno sviluppo narrativo all’altezza. Nella seconda parte si ha un calo evidente: nonostante la struttura a incastro e i salti temporali per rendere il tutto più avvincente, alla fine la girandola di tradimenti incrociati finisce per stancare e, malgrado un paio di sequenze memorabili nel loro essere estreme, si arriva infine ad una conclusione tutto sommato più innocua del previsto. Il coraggio mostrato all’inizio viene quasi del tutto vanificato da un “happy endig” al limite del moralismo che cozza con quanto fatto precedentemente, una necessità di normalizzazione che di veramente cattivo non ha nulla.
Senza un briciolo di pietismo, anzi con uno sguardo amabilmente spietato su questi uomini e donne assurdi, Gomez costruisce un’opera estremamente curata nella sua confezione. Il primo mestiere del regista, lo scenografo, si intuisce dalle azzeccatissime scelte di ambienti e costumi, rivelando allo stesso tempo ottime abilità di regia.