Pepa San Martin, regista cilena al suo esordio con il lungometraggio Rara, è il ritratto vivente di un meraviglioso quadro della tradizione sudamericana: dotata di una voce dalle indefinite sfumature colorate, prova a contenere la propria personalità forte ed indipendente nei confini degli accessori che indossa, nel piccolo orecchino a forma di albero della vita che pende dal suo orecchio sinistro, ma con risultati vani: ascoltarla mentre spiega la genesi del suo film equivale a lasciarsi trascinare nel fiume della vitalità e delle emozioni. L’abbiamo incontrata a Roma per la presentazione del suo ultimo lavoro, in uscita il prossimo 13 Ottobre, ed incentrato su un’adolescente alle prese con le difficoltà della crescita mentre, intorno a lei, si consuma una “cruenta” battaglia a colpi di cause legali e tribunali per la sua custodia e quella di sua sorella, che il padre vuole strappare alla madre che è andata a vivere con la nuova compagna: ne abbiamo approfittato per scambiare due chiacchiere, in una round table dedicata alla stampa web, con la regista sulle tematiche di Rara.
La prima domanda che le viene rivolta riguarda la realtà nella quale affonda la suggestione alla base del film: prendendo spunto da un fatto reale – un padre che ha inoltrato una battaglia legale per avere di nuovo la custodia dei figli, cresciuti in una famiglia Arcobaleno – le viene domandato se ha incontrato davvero queste persone durante le riprese: sì, in effetti le ha incontrate e da lì ha iniziato ad approfondire sempre di più l’argomento, scavando nel caso e addentrandosi, realizzando che in realtà ne esistono tanti altri e che questo era solo il più clamoroso, la punta di un enorme iceberg.
Una constatazione viene rivolta a Pepa San Martin, elogiando il suo lavoro: di solito, nel momento in cui si sceglie di approcciarsi a tematiche analoghe, si sceglie sempre di narrarle dal punto di vista di una coppia omossessuale; in questo caso, invece, il focus è incentrato sulle dinamiche interne ad una coppia LGBT, mostrando una dimensione che di solito viene trascurata dalla cinematografia odierna. La società cilena, nonostante i postumi della dittatura perpetuata da Pinochet, come si approccia oggi alla questione dei diritti degli omosessuali: ha una posizione progressista riguardo a tale argomento oppure tende a barricarsi dietro posizioni più conservatrici?
Secondo la regista- cilena di nascita – bisogna mostrare rispetto e paura nei confronti del termine “progressista”; nonostante i cambiamenti che si sono mostrati nell’arco di questi anni e tutti gli sforzi mostrati, la questione degli omosessuali è ancora oggetto di giudizio, come del resto anche in Italia vista la questione del matrimonio: non sono uguali di fronte alla legge. Come accade in paesi come l’Italia e soprattutto il Cile, dove la Costituzione è ancora figlia della dittatura di Pinochet e sviluppare un cambiamento sociale è molto difficile. Non è, quindi, una coincidenza che il cinema attuale sudamericano si stia ispirando sempre più spesso a fatti realmente accaduti: il fine è quello di trovare una propria “voce politica”, una “voce di strada” ben definita.
Una nuova domanda è incentrata sulla scelta del punto di vista del film – quello delle due sorelline, Sara e Cata – ma soprattutto sul significato intrinseco del titolo, Rara: sempre con la solita attenzione e precisione, Pepa San Martin ribadisce che “rara” è la società che ci spinge a farci sentire degli estranei nel nostro stesso mondo, dei diversi e degli emarginati; per tale motivo uno degli obiettivi più importanti che si era posta era quello di realizzare un film “omosessuale” ma non destinato a tutti coloro che “erano già convinti”, quanto a quell’ampi porzione di pubblico composta soprattutto da famiglie e che ancora nutrono dei dubbi, delle perplessità, tanto da far guadagnare al film l’appellativo di “lupo travestito d’agnello”, perché – in modo scaltro – sembra raccontare una storia in modo soft e naif, quando invece ha un cuore molto politico ed impegnato; la sua speranza è rappresentare tutto questo come una imprescindibile responsabilità che tutti abbiamo in quanto cittadini, perché «le leggi si fanno nelle grandi sale, ma noi abbiamo il dovere di umanizzare queste leggi».
Viene fatto notare come Rara, dietro la storia seria e drammatica narrata, utilizzi i codici da commedia nemmeno adulta, ma adolescenziale che sembra destinata ad un pubblico specifico (e molto giovane) pur affrontando tematiche impegnative: in effetti, l’intento era proprio quello di realizzare un film per famiglie perché gli adulti riescono a cambiare solo attraverso i bambini; e anche l’umorismo è un altro elemento importante – anche nella sua vita quotidiana – che di solito viene preso troppo alla leggera, mentre andrebbe considerato molto di più dalle persone.
Una curiosità riguarda il suo approccio da regista con gli attori, e soprattutto con due giovani attrici come Julia Lubbert e Emilia Ossandon (rispettivamente, nei ruoli di Sara e Cata), vista la spontaneità e la vitalità mostrate nell’interpretare i propri personaggi: secondo la San Martin, dopo un lavoro durato cinque mesi (l’arco delle riprese, durante le quali hanno cercato di creare un rapporto, strutturando dei legami sociali), ha davvero realizzato il suo desiderio di realizzare un film con bambini ed animali (sogno recondito che coltivava da sempre, ma anche ostacolo comunemente difficile da superare/affrontare durante la lavorazione di un film); lavorare con i bambini e del tutto diverso rispetto all’approccio che bisogna mostrare verso gli adulti, e se quest’ultimi sentissero come i bambini sarebbero tutti dei grandissimi attori, perché i “piccoli” non recitano, sentono, e non hanno nemmeno bisogno di improvvisare: si attengono ad un copione, ma bisogna lavorare molto prima per metterli nelle condizioni tali da poter capire la scena per poi procedere, approfittando anche del loro apporto personale nel costruire il personaggio.
Nonostante un piano sequenza iniziale simile ad un film di Scorsese, la regista ammette che ci sono stati diversi spunti che hanno influenzato il suo lavoro: da Truffaut a Cassavetes, il suo intento era comunque quello di «realizzare un film brillante, che non mostrasse traccia di una fotografia prettamente folkloristica». Truffaut, con il suo I 400 Colpi l’ha sicuramente ispirata ma non suggestionata nel portare sulla scena questo ritratto di una famiglia incentrata sull’amore, la comunicazione e il rispetto: della differenza – anche se spaventa – ma prima ancora dell’individuo.
L’ultima domanda riguarda proprio la scena finale del film, ed è una sorta di dubbio che necessita di essere sciolto: nonostante tutto, quanta speranza c’è… se c’è?
Ridendo, Pepa San Martin regala un ultimo illuminante pensiero: la speranza c’è e si trova nelle generazioni future, che forniscono la speranza di poter cambiare le cose almeno nel suo paese, nel suo Cile – dove il film ha ricevuto un visto della censura fino ai 17 anni – dove anche i politici possano rendersi conto che esiste un film, incentrato su una tematica così importante ed impegnata, che possa essere mostrato alle generazioni future e non solo ai grandi, agli adulti che sono meno inclini al cambiamento: la speranza sono proprio loro, i bambini.