Jacques Tati, indimenticabile genio della comicità francese slapstick e silenziosa, torna nelle sale italiane il 6 giugno… a far danni, dopo il restauro di quattro capolavori: Mon Oncle, PlayTime, Les Vacances de Monsieur Hulot e Jour de Fête escono nuovamente nello splendore (nonostante l’usura del tempo) della pellicola originale per far conoscere a tutti – chi è troppo giovane, o chi lo ha dimenticato – il genio silente, pirotecnico e pericoloso del comico francese.
Anche se definirlo soltanto “comico” è a dir poco limitante: Tati era più che un comico, come lo definisce David Lynch era un “creatore di realismo fantastico”: non a caso viene inserito in quel particolare pantheon di fondatori della risata (di qualità) insieme agli americani Charlie Chaplin e Buster Keaton. La sua celebre camminata, i calzoni corti, i calzini a righe, la pipa, l’ombrello e quella tipica espressione da “uomo caduto sulla luna” servono a costruire il suo personaggio (tale Monsieur Hulot, appunto) che incarna una tipica maschera nata nell’avanspettacolo (come accadde ai Fratelli Marx o a Chaplin stesso): l’uomo che rappresenta è una sorta di “alieno” spiato – dalla MdP- mentre si aggira, con circospetta pericolosità sovversiva, nella realtà circostante, in una società – quella francese – raffigurata al bivio di transizione tra vecchio e nuovo, tra ritualità arcaica e modernità divorante.
In Mon Oncle viene portato alla luce proprio questo insanabile contrasto tipico della nuova era: il piccolo Gérard Arpel è diviso tra la monotonia della casa ultramoderna dei ricchi genitori (il padre lavora in una fabbrica dove si producono i primi, rivoluzionari, oggetti in PVC) e il calore del quartiere popolare dello zio Hulot. Capendo che quest’ultimo ha decisamente bisogno di uno scopo, un lavoro, e una donna per potersi integrare al meglio nel tessuto sociale, la sorella e il cognato cercano di inglobarlo in tutti i modi: tra colloqui di lavoro, party e vicine fashioniste ogni tentativo di organizzare la vita del signor Hulot si rivela disastroso, costringendo il cognato – ormai disperato e con la propria routine messa a repentaglio – a prendere drastici provvedimenti.
Hulot- Tati è un vero e proprio “alieno”, un’evoluzione della “maschera” comica che incarnerà Peter Sellers nella saga de La Pantera Rosa, calandosi nei panni – delicati come un elefante in una cristalleria – dell’ispettore Clouseau: Tati è straniato – e straniante – come lo sguardo tragicamente comico di Keaton, un lucido osservatore della realtà “moderna” (quella della Francia degli anni ’60) ma privo di qualunque forma di castigante e provocatoria moralizzazione: per satireggiare non ricorre alla parola arguta e cinica, alla battuta tagliente, ma soltanto al potere dirompente dell’immagine. L’immagine stessa, l’inquadratura, diventa il catalizzatore (in)volontario della comicità, con i suoi contrasti e con un cromatismo degno della sua epoca: Mon Oncle è un viaggio pop nella cultura della modernità degli anni ’60 dove – come scrisse Truffaut nel 1958 – Tati mette in scena “[…] Due mondi in contrapposizione [che] sono quello di 20 anni fa [il quartiere dove vive Hulot, NdA] e quello in cui vivremo fra 20 anni [la casa ultratecnologica degli Arpel, NdA]”; il suono e l’immagine conferiscono ritmo al film, ma è la realtà stessa a creare da sola l’umorismo involontario e il fascino della risata.
Mon Oncle
Commento Finale - 95%
95%
Imperdibile
Tati è straniato – e straniante – come lo sguardo tragicamente comico di Keaton, un lucido osservatore della realtà “moderna” (quella della Francia degli anni ’60) ma privo di qualunque forma di castigante e provocatoria moralizzazione: per satireggiare non ricorre alla parola arguta e cinica, alla battuta tagliente, ma soltanto al potere dirompente dell’immagine. L’immagine stessa, l’inquadratura, diventa il catalizzatore (in)volontario della comicità, con i suoi contrasti e con un cromatismo degno della sua epoca: Mon Oncle è un viaggio pop nella cultura della modernità degli anni ’60, dove ancora il suono e l’immagine conferiscono ritmo al film, ma è la realtà stessa a creare da sola l’umorismo involontario e il fascino della risata.