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La ragazza senza nome – Abbiamo incontrato Jean-Pierre e Luc Dardenne

Esce oggi in Italia, dopo essere passato al Festival di Cannes a Maggio, La ragazza senza nome, ultimo film dei fratelli due volte palma d’oro Jean-Pierre e Luc Dardenne. Noi li abbiamo incontrati a Roma per farci raccontare del loro nuovo lavoro.

Li incontriamo in una giornata molto piovosa intenti ad ordinare una amatriciana prima di iniziare la piacevole chiacchierata con noi. Jean-Pierre e Luc Dardenne, i fratelli del neo-neorealismo europeo, campioni pluripremiati (due le palme d’Oro, per Rosetta nel 1999 e L’enfant nel 2005), a Roma per presentare il loro ultimo film La ragazza senza nome (La fille inconnue), in concorso già lo scorso maggio al Festival di Cannes.

La pellicola è interamente incentrata sulla figura della dottoressa Jenny (interpretata da Adèle Haenel) che si ritrova involontariamente coinvolta nella morte di una giovane donna, tanto da portarla ad “indagare” per conoscere l’identità della donna. “Abbiamo seguito lo stesso metodo meticoloso che abbiamo sempre utilizzato nei nostri film, che comporta una lunga fase di prove con gli attori per riuscire a trovare le varie inquadrature, le varie scene e gli equilibri all’interno dello stesso.” Ed è stato proprio un problema di equilibrio che li ha costretti a tornare in sala di montaggio dopo Cannes, per ritoccare il film e distribuirlo con sette minuti in meno: “quando eravamo a Cannes noi stessi abbiamo sentito, ed è stata una sensazione condivisa da qualche amico critico che ci ha parlato, che ci fosse un problema di equilibrio. La critica è stata divisa sul film però è vero che c’era qualcosa di cui non eravamo convinti nemmeno noi. Dopo Cannes la nostra disposizione mentale era ovviamente cambiata e ci siamo resi conto che lo squilibrio era dovuto ad un’importanza eccessiva dall’aspetto della cronaca del film e non una sufficiente armonia tra quella che è la professione medica della dottoressa Jenny da un lato e l’indagine che lei conduce per dare un nome a questa ragazza dall’altro. Abbiamo dovuto ricreare un equilibrio  tra questi due percorsi che dovevano essere perfettamente intrecciati. Non abbiamo minimamente toccato l’ordine delle scene, quindi il montaggio nella sua struttura essenziale, ma abbiamo accorciato alcune sequenze.  E’ stata una giornata di lavoro niente di più ma ciò ci permette di essere maggiormente nella persona e nella mente di Jenny. Ci siamo chiesti il perché di questa situazione e forse abbiamo trovato anche una risposta: di solito tra la fase del set e la fase del montaggio ci prendiamo sempre 15 giorni di vacanza. Una pausa che ci allontani dal film e che ci faccia poi entrare in sala montaggio con maggior oggettività sul materiale girato. Questa volta, invece, abbiamo scelto di non fare nessuna pausa, arrivando in sala montaggio ancora con un piede sul set senza avere la giusta distanza.”

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C’è stata una figura femminile a cui vi siete ispirati e come mai ancora una donna protagonista del vostro film?

“E’ vero che non c’è una fonte di ispirazione reale e diretta che abbia ispirato questo film, ma è vero che non abbiamo mai immaginato la dottoressa Jenny come un dottore, un medico al maschile. Abbiamo sin da subito pensato ad una donna come è avvenuto nei nostri film precedenti. E’ difficile capire perchè si compiono certe scelte, probabilmente la scelta di una protagonista femminile dipende dal fatto che amiamo di più lavorare con le attrici, ed è vero che probabilmente le donne abbiano più il polso, la temperatura di quella che è la società in cui viviamo.”.

Jenny è una dottoressa che ascolta tantissimo il corpo dei suoi pazienti e si ritrova ad indagare su una ragazza di cui non sa nulla, non la vede. Come avete lavorato con l’attrice per rendere reale questa assenza?

“Abbiamo lavorato molto sull’assenza e sul vuoto. Di questa ragazza senza nome noi vediamo solo un’immagine in bianco e nero, un’immagine quasi spettrale, quel fotogramma della registrazione della telecamera di sorveglianza ed è l’immagine che ricorre per tutto il film. Ma di fatto quando lei si reca sul luogo del ritrovamento, la pietra su cui ha sbattuto la testa è stata rimossa, quindi la traccia fisica non c’è. E’ così che abbiamo lavorato: sul silenzio, sul vuoto, sull’assenza di qualunque cosa nome compreso. E questo in rapporto antitetico con il suo mestiere, con la fisicità a cui la sua professione di medico la costringe. Il silenzio è proprio quello che consente anche a noi spettatori di ripensare a questa immagine fugace della ragazza che abbiamo visto. I momenti di silenzio che noi creiamo nel rapporto con i suoi pazienti speriamo suscitino nello spettatore la stessa attesa di verità che è quella che sta vivendo lei. E’ il silenzio che spinge le persone, poi, a riuscire a trovare le parole per dire tutto quello che non viene detto. E’ per scelta un film giocato poco sulla parola ma piuttosto sul silenzio e sul vuoto per dare una dimensione sia dell’ossessione di Jenny e sia per spingere ciascuno a parlare. Diciamo che il silenzio è la colonna sonora del film. Se in molti altri film la musica accompagna le emozioni dei personaggi qui è il silenzio che accompagna le emozioni della nostra protaginista Jenny.”

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E’ un film che parla anche di colpa, i personaggi agiscono in modo discutibile ma non sempre universalmente condannabile. La risoluzione delle colpe è una scelta più politica o più cinematografica? O le due cose sono inscindibili?

“E’ questo che noi cerchiamo di dire attraverso il film e attraverso il ritmo che è pieno di silenzi: attraverso il silenzio Jenny sceglie  condividere con i suoi interlocutori il suo senso di colpa perchè in questo modo possano essere indotti a parlare e darle le informazioni che vuole. Per dare a questa ragazza un nome e farla rientrare nella grande categoria degli esseri umani e non farla sparire due volte nel momento in cui senza identità non ci sarebbe stata traccia del suo passato su questa terra. Ed è quello che noi cerchiamo di dire attraverso il cinema.”

Rispetto all’assunzione della responsabilità che è il fulcro della protagonista, ci sono molti personaggi che le ruotano intorno che esprimono un problema che molto spesso è legato alla condizione sociale di ognuno. Era voluto che ogni personaggio che Jenny incontra cerchi una propria identità?

“In realtà no. L’idea non era questa. Jenny fa in modo che condividano il senso di colpa e dunque arrivino a parlare. Non so se conoscete la frase dei fratelli Karamazov che dice: “siamo tutti colpevoli, io lo sono più degli altri”. Ora siamo “tutti colpevoli” è una frase facile che spesso usiamo e che ci porta ad assumere una responsabilità, ma “io più degli altri” ci mette immediatamente e singolarmente in una posizione di grande concretezza. E’ alla mia porta che lei ha suonato e sono io a non aver aperto, sono io che avrei dovuto rispondere a quella chiamata ma non l’ho fatto. E quello che lei fa nelle domande che pone agli altri è se io ti pongo una domanda diretta e tu scegli di non rispondere divieni più colpevole degli altri perchè nessuno può rispondere al tuo posto. Quindi lei arriva di fatto a cambiare gli altri rendendoli da semplici personaggi a personaggi colpevoli.”

Leggi la recensione del film

About Federica Rizzo

Campana doc, si laurea in Scienze delle Comunicazioni all'Università degli Studi di Salerno. Web & Social Media Marketer, appassionata di cinema, serie tv e tv, entra a far parte della famiglia DarumaView l'anno scorso e ancora resiste. Internauta curiosa e disperata, giocatrice di Pallavolo in pensione, spera sempre di fare con passione ciò che ama e di amare follemente ciò che fa.

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