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Fuocoammare di Gianfranco Rosi – Recensione Film

Presentato in questi giorni in concorso al Festival internazionale del cinema di Berlino, Fuocoammare racconta, attraverso lo sguardo dei suoi abitanti e soprattutto attraverso quelli di Samuele, un bambino di 12 anni, dell’isola di Lampedusa, approdo negli ultimi 20 anni di migliaia di migranti in cerca di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.

Mediando lo sguardo della tragedia che si consuma a poche miglia dalla costa di Lampedusa attraverso monitor militari, specchi, oblò bagnati e incrostati di salsedine, Rosi ci racconta il fenomeno dell’immigrazione resistendo al desiderio di concentrare l’attenzione su una o più storie dei migranti. Questi restano poco più che fantasmi, figure spettrali che nel tragitto in mare hanno perso ogni specificità, e vengono mostrate solo come popolo, massa. Sulla terraferma scorre intanto un piano narrativo parallelo: l’anziana zia Maria detta le sue dediche al dj di una stazione radiofonica locale; un pescatore si immerge con la muta per pescare ricci e patelle; Maria, la nonna di Samuele, si dedica al cucito e racconta al nipote vecchie storie di mare. I migranti, quelli che ce l’hanno fatta e sono in attesa, organizzano tornei di calcio.

I viaggi della speranza degli immigrati procedono giornalmente senza mai incontrarsi apparentemente con la vita degli isolani di Lampedusa; questi ultimi vivono in modo quasi arcaico, ancorati a una vita che non sembra più appartenere alla società contemporanea.  Samuele va a scuola, gioca, non entra mai in contatto con quel mondo di disperazione, che gli scorre accanto. Ma allora perché quell’improvvisa difficoltà a respirare che lo prende di tanto in tanto, e lo costringe ad andare dal medico? Il medico dell’isola, appunto, è l’unico tenue filo che unisce questi due universi, un factotum sanitario che si occupa anche delle autopsie e della raccolta dei cadaveri e che, nonostante veda la morte tutti i giorni, non riesce ad “abituarsi” all’orrore di cui è testimone giornaliero.

In questa dicotomia tra lampedusani e migranti,  Fuocoammare trova il suo Virgilio in Samuele, un dodicenne che non si trova molto a suo agio sul mare e si appassiona solo ai giochi di terra; è nel suo occhio pigro che si nasconde la verità di Rosi. Il mondo occidentale, così abituato a guardare, si è dimenticato come si fa a osservare, posa con pigrizia il suo occhio sull’universo circostante, dandolo sempre per scontato ed evitando di soffermarsi su ciò che non procura piacere. Così la frase “Devi farti lo stomaco Samuè…” che viene ripetuta al bambino, incapace di vivere il mare, suona più come una sentenza che come un’opportunità per il futuro.

Adottando un impianto formale che arriva al senso di ciò che vuole esprimere nella commistione tra gli elementi del paesaggio e la coralità dei personaggi, colti all’interno di uno spazio periferico e circoscritto, Fuocoammare riesce nell’impresa di risultare un’opera sottile, asciutta, ma di respiro ampio. Colpisce e crea tensione emotiva la scena finale: il corpo martoriato di uomini e donne, il corpo anonimo senza vita, è al centro dell’inquadratura del regista. La domanda su cosa è moralmente giusto mostrare e cosa invece va nascosto allo sguardo dello spettatore è lecita. Resta, però, forte la volontà di voler andare oltre alle cifre. I numeri impressionano, ma restano numeri. Nello sfondare la parete dello sguardo censurato Rosi mostra cosa “significano” quelle cifre.

About Federica Rizzo

Campana doc, si laurea in Scienze delle Comunicazioni all'Università degli Studi di Salerno. Web & Social Media Marketer, appassionata di cinema, serie tv e tv, entra a far parte della famiglia DarumaView l'anno scorso e ancora resiste. Internauta curiosa e disperata, giocatrice di Pallavolo in pensione, spera sempre di fare con passione ciò che ama e di amare follemente ciò che fa.

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