Claudio Giovannesi torna a stupire dietro la macchina da presa con il suo secondo lungometraggio (dopo il folgorante Alì ha gli occhi azzurri), presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2016: Fiore è una storia piccola ed intima di un amore più grande e di un desiderio difficile da ingabbiare, quello di libertà.
Daphne (la debuttante Daphne Scoccia) viene condannata ad un anno di carcere minorile per rapina. Qui, mentre attende l’arrivo del padre Ascanio (Valerio Mastandrea), nonostante le divisioni tra maschi e femmine entra, casualmente, in contatto con Josh (Josciua Algeri) un diciottenne anche lui rinchiuso nella stessa, squallida, gabbia. Il loro rapporto nasce tra sguardi e favori, per poi crescere col tempo sempre di più, fino a sfociare in un primo amore (per Daphne, alla ricerca proprio d’Amore) folle e pazzo, che li spingerebbe ad infrangere qualunque regola, legge o imposizione solo per scambiarsi un bacio e potersi, finalmente, vivere in libertà.
Grazie ad un cast di non-professionisti intensi e convincenti (supportati comunque dalla presenza sempre efficace e incisiva di Mastandrea), quella che apparentemente poteva rimanere soltanto come una buona idea sviluppata non troppo bene e lasciata sospesa, assume invece tutta un’altra forma, diventando un’opera più complessa nonostante le sue numerose debolezze strutturali e la natura incompleta. L’ottimo spunto di partenza viene “dilazionato” da Giovannesi nell’arco narrativo dei 119 minuti in cui assistiamo alla lenta, costante, monotona routine carceraria di Daphne, tra risse, rabbia, disagi e quei rarissimi sprazzi d’amore e libertà.
Questo aggiornamento della “rabbia giovane” al tempo delle periferie romane si dimostra un ritratto pungente ed efficace, struggente e avvolto da melanconia soprattutto in quanto racconto per immagini (stupende, immortalate dall’ineccepibile fotografia “sporca” ma baciata dalla luce di Daniele Ciprì) e meno per quanto riguarda il racconto attraverso le parole: l’ossatura assente o confusa – per quanto riguarda la sceneggiatura – lascia lo spettatore basito, in attesa di risposte che meritano di essere soddisfatte ma che, concretamente, non trovano altra spiegazione se non nelle innumerevoli elucubrazioni post-visione del film.
Un pregio che ha Fiore è la capacità di saper raccontare attraverso uno sguardo lucido, mai banale e scevro di facile pietà, la condizione difficile della vita in un carcere (soprattutto minorile): non c’è retorica nella macchina da presa di Giovannesi ma solo cruda raffigurazione di una realtà che, di per sé, è già abbastanza crudele senza bisogno di essere sottolineata; il desiderio d’Amore di Daphne- alla disperata ricerca dell’affetto del padre, che trasferisce (come un vero e proprio transfert freudiano su Josh)- è forte ma mai quanto il suo bisogno di libertà, di recuperare il proprio tempo perduto all’interno di una gabbia di cemento dalle inferriate verdi alle finestre.
Commento Finale - 70%
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Fiore
Fiore è una storia piccola ed intima di un amore più grande e di un desiderio difficile da ingabbiare, quello di libertà.Grazie ad un cast di non-professionisti intensi e convincenti (supportati da Valerio Mastandrea), quella che apparentemente poteva rimanere soltanto come una buona idea sviluppata non troppo bene e lasciata sospesa, assume invece tutta un’altra forma, diventando un’opera più complessa nonostante le sue numerose debolezze strutturali e la natura incompleta. Un pregio che ha Fiore è la capacità di saper raccontare attraverso uno sguardo lucido, mai banale e scevro di facile pietà, la condizione difficile della vita in un carcere (soprattutto minorile): non c’è retorica nella macchina da presa di Giovannesi ma solo cruda raffigurazione di una realtà che, di per sé, è già abbastanza crudele senza bisogno di essere sottolineata.