Il lavoro di Eleonora Danco funziona in primo luogo per la genuinità dei contributi degli attori non professionisti, per lo più adolescenti e anziani, che si confessano davanti alla macchina da presa. La curiosità divertita della regista li spinge a parlare di vita e di morte, dell’aldilà e dell’aldiquà, della sessualità e dell’amore, di ricordi passati e di progetti futuri. Tra i volti e le voci emerge la figura paterna, uomo distinto e ricco di quel pudore di chi è geloso dei propri affetti. La pellicola funziona meno quando ad occupare lo spazio scenico è invece la stessa Eleonora Danco, che intervalla la biografia dei suoi personaggi a sipari dal tono surreale in cui tenta di tessere la propria. Viene in mente Moretti, al quale il film è piaciuto al punto da distribuirlo al Sacher, non tanto per la singola trovata – il bagno nella vasca di biscotti rimanda forse più all’interno metafisico di De Chirico che agli affondi di Michele Apicella nel nutellone – quanto, più in generale, per l’irriverenza bizzarra di certe esplosioni nervose, sebbene giocate qui in modo prevedibile e poco efficace: la protesta armata contro certe brutture della modernizzazione, ad esempio, riesce pedissequa ai limiti del conformismo. Il film regge bene quando si attiene alla forma documentario, pur arricchita da alcuni happening che rimandando all’esperienza teatrale (il ragazzone che con sforzo erculeo solleva masse inesistenti, il padre che indossa una tuta spaziale assieme alla badante con cui sconta la pena felice della vedovanza), colpisce a vuoto dove ha l’ambizione di costruire una diegesi propria, dunque in un certo senso fallisce come cinema. La Danco resta prigioniera di una velleità, e non va oltre la letteratura delle proprie emozioni. Quando in conferenza stampa dichiara di rifiutare la definizione di documentario – non comprendendo l’assoluta prevedibilità del suo scarto né le possibilità iscritte nel genere – quando con vacuo escatologismo intitola il suo film N-Capace, quando nelle note di regia lo commenta con l’espressione “pezzi di vento”, c’è il segno di un’autocoscienza posticcia, per quanto genuinamente lo sia, e questo genera un disequilibrio tra le intenzioni dell’autrice e la loro realizzazione. Che, a onor del vero, non illumina ma neppure dispiace. L’accorato racconto sulla licantropia tra i lidi di Terracina chiude la pellicola con un’irresistibile parentesi horror. Menzione speciale della giuria al Festival di Torino.
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