Chiunque non conosca Álex De la Iglesia sappia che non solo si è perso finora una delle firme europee più interessanti in assoluto, ma anche e soprattutto alcuni dei film più originali e strampalati in circolazioni, capaci di mixare orchi da circo e ironia grottesca, orride streghe e sangue a profusione, bellezza incontaminata e Satana in persona. E’ difficile sapere cosa aspettarsi realmente davanti a una pellicola di De la Iglesia che riesce di film in film (a parte quelli su commissione) a giocare abilmente con il genere e il cinema d’autore europeo. Bollare i suoi film come sconclusionati e grotteschi, strabordanti e auto-compiaciuti è decisamente riduttivo. Tuttavia “Le streghe son tornate”, ultima fatica del cineasta spagnolo si avvicina pericolosamente a queste definizioni.
La pellicola, presentata al Festival Internazionale del Film di Roma 2013, come nella migliore tradizione di De la Iglesia ha un’impianto fortemente di genere che, tuttavia, è capace di smarcare grazie a intuizioni geniali e a spassose trovate registiche. La prima mezz’ora de “Le streghe son tornate” ha dello straordinario sia da un punto di vista di scrittura, che di inventiva e di ritmo. L’azione prende il via da una rocambolesca rapina fatta da un gruppo di artisti di strada – tra cui spicca un Gesù Cristo con mitraglietta nascosta nella croce e uno Spongebob poco socievole – a un banco di Compro Oro, per poi proseguire in una folle corsa su un taxi sequestrato che culminerà nel temutissimo paesino di Zugarramurdi, luogo natio delle streghe. Quest’ultime non saranno altro che il simbolo di un certo tipo di femminilità, quella isterica e lunatica, psicolabile e pericolosa, emancipata e repentina che tanto fa tremare l’uomo contemporaneo. Tutti i personaggi maschili del film sono infatti mossi da relazioni complicate con l’altro sesso che l’arrivo a Zugarramurdi non fa altro che esacerbare ed esplodere. Se tutte le donne sono streghe, gli uomini sono così fessi da non opporvisi.
Tuttavia se il film parte alla grande a metà inizia pericolosamente a spegnersi: l’inventiva sembra lasciare il posto ai cliché (molti dei quali voluti, come la strega che cuoce il bambino come un porcellino con tanto di mela in bocca), l’allegoria all’horror più canonico, la follia alla sovrabbondanza. Si avverte quasi una sorta di horror vacui nella regia dello spagnolo che alle lunghe finisce con lo stancare e, addirittura, con l’annoiare. L’accumulazione diviene compulsiva e le dinamiche narrative si appiattiscono a un classico scappa e fuggi con tanto di salvataggi all’ultimo secondo. Gli stereotipi del genere non riescono a ad andare oltre allo stereotipo stesso, come invece era successo ne “Il giorno della Bestia” o, ancora di più, ne “Ballata dell’odio e dell’amore”, e l’esagerazione diviene puro gioco stilistico fine a se stesso.
Forse non sarà il miglior prodotto del regista iberico ma, tuttavia, resta caldamente consigliato, specie a chi è ancora a digiuno del suo cinema.