Gemma Bovery è una creatura cinematografica che sperimenta e si plasma nel corso di un’accesa lotta tra il peso di un Nome ed il libero arbitrio. Un po’ prototipo Letterario, un po’ Graphic Novel, la pellicola è manovrata da una regìa vigile ma discreta, tesa a riadattare ed amalgamare il tutto elegantemente, senza guardare tutto troppo da vicino. Anne Fontaine è così discreta da mandare qualcun altro, un personaggio coinvolto, a spiare e supervisionare al posto suo.
Martin (Fabrice Luchini) è spettatore, protagonista e servo vigile del teatro di posa ed è il vero Deus ex machina che manovra, volontariamente e non, la prospettiva ed il susseguirsi degli eventi. Gemma risveglia i suoi sensi addormentati, come quelli della Normandia in cui si svolgono i fatti (immortalata nella stagione migliore) ed incarna il suo amore per Flaubert, fondendosi idealmente con i suoi libri e la sua panetteria. Le luci sono calde, morbide. Il pane è onnipresente e protagonista. Tutte le donne, meno la protagonista, sono spigolosissime, all’esterno come all’interno.
Il cinema francese è sempre quella straordinaria creatura ibrida mezza Teatro e mezza Grande Schermo. Gemma incarna le donne di quel filone letterario che condanna quella capacità, tutta femminile, di morire tragicamente in nome dell’amore.
A cavallo tra Cinema e Teatro, Commedia e Dramma, lo spettatore non sa mai se (e quando) ridere o piangere. Il finale vale tutti gli altri 98 minuti di Film.