Esordiente nel lungometraggio, Andrew Renzi, regista trentunenne di Philadelphia, dirige un Richard Gere in forma smagliante in Franny (The Benefactor), un eccentrico milionario, personaggio sopra le righe che manifesta tante ossessioni e maniacali debolezze, figura complessa di uomo cui la vita sembra aver dato tutto e tolto molto.
Renzi, delinea un personaggio interessante, tutto basato sul non-detto e sul sottile confine che separa i sentimenti dalle ossessioni. La pellicola risulta sfaccettata e ricca di spunti narrativi, e proprio per questo va incontro al tremendo rischio di raccontare “tutto e niente”: troppi spunti interessanti di riflessione vengono solo abbozzati. L’ambiguità del personaggio, che sarebbe la sua forza, ne esce annacquata, e la volontà di non fornire alle spettatore troppe informazioni finisce per appiattire il racconto, che risulta così privo di sorprese.
Davanti a queste premesse, ti aspetteresti che il film prenda una direzione decisa, che decida di scavare dentro al dolore del protagonista, in cerca di consolazione. Mantenendosi sospeso, Franny sembra riuscire a trasmettere solo in parte emozioni viscerali che un personaggio così ben delineato dovrebbe dare. Franny resta sempre a galleggiare in una zona opaca, non riuscendo mai a spingere davvero nella carne del suo protagonista.
Sorretto da una sceneggiatura un po’ carente e con alcuni limiti stilistici, Franny ha dalla sua un potente protagonista, Richard Gere sanguigno, sovraesposto, in grado di sovradimensionare le stranezze e le frustrazioni di un uomo conteso tra forma e sostanza, essere e apparire, e che riesce con un’ottima interpretazione a fare la differenza e a dare un “carattere” al film. È la forza attoriale a conferire all’opera una certa complessità e a rendere Franny tremendamente umano, succube della propria grandezza e del proprio potere, minato nella propria fragilità dal peso del passato e dai sensi di colpa.