Dopo l’adattamento cinematografico della miniserie a fumetti “2 Guns” (Cani Sciolti) di Steven Grant, il regista islandese Baltasar Kormákur, lascia a casa il sarcasmo e le sparatorie per portare in sala un racconto intimo di una reale tragedia umana. Tratto dal saggio “Aria Sottile” scritto da Jon Krakauer, tra i veri protagonisti della storia, “Everest” narra la sfortunata e disastrosa spedizione, finita in disgrazia, sull’omonima montagna avvenuta nel 1996. Un racconto umano che Kormákur disegna con uno stile visivo essenziale che caratterizza al meglio il ruolo della montagna.
Con un piglio quasi documentaristico, la pellicola si segnala come un più che sufficiente thriller drammatico sostenuto da un grande cast che spinge la storia oltre i limiti di una scrittura prolissa e priva di veri cambi di ritmo. Divisa in due parti, l’addestramento e la scalata, la narrazione dell’opera ci addentra all’interno di questa storica sfida contro madre natura ricostruendo in modo didascalico ogni passaggio cruciale della spedizione: dal reclutamento e addestramento fino ovviamente alla scalata e discesa dall’Everest. Racconto fin troppo minuzioso di particolari che se bene consente allo spettatore di conoscere i rischi della missione, e magari perché no creare empatia con i protagonisti, dall’altra toglie completamente ritmo. Errore di struttura non da poco sopratutto perché non utilizzato a dovere, né per infondere tensione e ansia e neanche per sviluppare momenti di riflessione.
Everest è un film convenzionale, tecnicamente avanzato ma sovrappopolato di elementi e protagonisti. Un disaster movie fondamentalmente costruito sui soliti cliché del genere. Film che ha almeno il merito di non calcare mai troppo la mano, non prima degli ultimi 10 minuti, sull’aspetto emotivo del racconto. Buono effetto 3D ma non indispensabile. Imperfetto.