Francia, 2015. Periferia urbana di quelle brutte, le cosiddette banlieue: popolate da gente poco raccomandabile, da fantasmi urbani, da bulli che scimmiottano il Bronx, da neri che cercano lo status dei bianchi, da animali schivi e ragazze timide che poi diventano a loro volta ragazzacce. Proprio quelle che si tirano continuamente occhiatacce, che si menano a caso o forse per la conqusita di un vago rispetto, che si riprendono col cellulare per rendere le umiliazioni virali, che cantano Rihanna perché Rihanna è figa come loro forse vorrebbero essere. E poi qualcuna di loro cresce, si mette una parrucca, mena altre ragazzacce, si prostituisce, ascolta qualche altro pezzo pop e poi chi lo sà…
Già, chi lo sa perchè Céline Sciamma ha realizzato questo film. Dopo il successo di critica e pubblico della sua opera prima “Tomboy”, La Céline torna con “Diamante nero”, sulla carta un spaccato nudo e crudo delle degradate periferie francesi, percorso di formazione che vuole (vorrebbe) mostrare la difficile crescita di una ragazza nera (con tutte le relazioni implicabili tra razza e gender) nel contesto della pressione sociale, delle restrizioni e dei tabù. Questi erano o sarebbero stati i nobili intenti della regista.
Céline, mischiando Trouffat e Spike Lee, cerca di indagare nel disagio senza però coinvolgere e appassionare lo spettatore che rimane freddo e distaccato di fronte a scazzottate e atti di bullismo. La storia è inesistente, preferendo la formula del “seguire un personaggio attraverso la crescita” scordandosi tuttavia di inserire almeno un personaggio in cui è possibile immedesimarsi: essendo tutti così impegnati a fare i cattivi, a risultare problematici, disadattati e soli che risultano bidimensionalmente piatti e semplicemente inconsistenti.
Il problema reale della pellicola è l’incapacità registica di narrare una vicenda e di gestire i tempi. Tutta presa dal suo strisciante femminismo di borgata, Céline non riesce a dare un briciolo di ritmo alle sequenze e alle scene, producendo un prodotto che annoia già prima della metà (si badi bene alla differenza tra lentezza e ritmo: un film ha ritmo non quando è montato in maniera veloce, ma quando ha tempi giusti. Per esempio un film come “Drive” di Refn ha un ritmo molto azzeccato e non annoia, nonostante ha un montaggio risalassato e scelte registiche-narrative dilatate), senza contare l’irritante scansione in capitolo di una semplicità e di una banalità imbarazzante.
Insomma come spesso accade per i prodotti festivalieri (il film è stato presentato in apertura al Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes), “Diamante nero” è un film che cerca di nobilitarsi attraverso le tematiche sociali e uno sguardo apparentemente da “autore”, ma che alla fine si imbatte nell’incapacità di raccontare e di emozionare. Bocciato.