Arriva nelle sale italiane dal 22 Ottobre, distribuito in 100 copie da BIM, Dheepan una nuova vita, l’ultimo film di Jacques Audiard, vincitore della Palma d’Oro alla scorsa edizione del Festival di Cannes.
Dheepan è un ex combattente del gruppo militante nazionalista Tigri Tamil, che vuole fuggire dalla guerra civile nello Sri Lanka. Per fingere di avere una famiglia e ottenere asilo politico in Europa, porta con sé una donna e una bambina. I tre si rifugiano a Parigi, dove Dheepan trova lavoro come guardiano nella periferia della città. L’uomo spera di costruirsi una nuova vita in Francia, ma deve scontrarsi con la violenza quotidiana della banlieue e deve cercare di proteggere la sua nuova famiglia.
Abbiamo incontrato a Roma il regista francese Jacques Audiard, già noto per opere molto apprezzate da pubblico e critica come Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore, Il profeta e Un sapore di ruggine e ossa, per farci raccontare del suo ultimo lavoro, del quale, Audiard tende subito a precisare, “vi dico subito che non è un film sull’immigrazione ma un film sull’integrazione sociale”
Come crede che il suo film abbia potuto aiutare la situazione dei migranti?
“Ho preso uno sconosiuto con la sua storia, gli ho dato un nome, e attraverso la forma del cinema l’ho ripreso e filmato. Dargli un nome e una storia risponde già ad una domanda sui migranti che per definizione sono anonimi.”
I suoi film si muovono in un campo che può essere definito d’autore, drammatico, solo che a differenza degli altri i suoi protagonisti sono sempre persone che pensano che la soluzione finale sia la violenza.
“Anche io sono costretto a constatare questo. C’è una cosa che ho capito di recente, che ho bisogno di episodi di questo tipo, di una certa stilizzazione, per far diventare i miei personaggi, personaggi di cinema. Prima si muovono nell’ambito della verosimiglianza, e in quel momento lo spettatore è consapevole che sta guardando, sta vivendo una storia di cinema. Non ho delle certezze assolute. E’ come se in questi episodi di violenza i personaggi diventassero vulnerabili.”
Un paradosso, quindi, diventano vulnerabili quando fanno del male a qualcuno?
“Diventa una figura di genere attraverso questo momento, un momento in cui effettivamente diventa violento. C’è un momento nel film in cui io interrogo direttamente lo spettatore ed è quando lui traccia questa linea che divide in due il quartiere ed è come se io chiedessi allo spettatore sei disposto a seguirmi oltre questo confine perchè stiamo entrando in un altro genere. E’ una figura di genere che ho molto utilizzato, ma c’è un riferimento preciso a A history of violence di David Cronenberg ed è la scena tra il padre e il figlio in cui si traccia proprio questo confine, come a dire fino ad ora siamo stati in una verosimiglianza, vuoi seguirmi nel terreno dell’inverosimile accettando di entrare in questa finzione?”
La linea che viene demarcata sta a Dheepan come stava alla perdita dell’udito nel Profeta? Nell’ultima parte di Dheepan, nell’entrare in un film di genere, Rambo è stato un riferimento? Il film sembra non parlare più della storia dei personaggi ma del cinema stesso e del film all’interno del cinema.
“Riguardo a questo parallelismo tra la scena del Profeta e quella di Dheepan, si ora me ne rendo conto, ma nel momento in cui decido di girare questa scena non ne sono a conoscenza. Come qualcuno mi ha citato, la scena in cui Dheepan sale velocemente le scale, la scena di Taxi Driver. Ci sono delle forme cinematografiche che si imprimono senza che ne siamo consapevoli. Per quanto riguarda Rambo no, a priori non credo, a posteriori forse. Si come figura di vigilante forse.”
Il protagonista, per tutto il film lo vediamo con un ruolo che non gli appartiene, quello di padre di famiglia, poi è come se venisse fuori la sua vera natura di soldato. Mi sembra che anche l’attore abbia avuto un’esperienza proprio di soldato bambino. Ha avuto influenza o avete sfruttato questa esperienza dell’attore?
“Forse bisognerebbe chiederlo a lui. Quando si ingaggia un attore che non è un attore di fatto naturalmente questa persona tende a pensare di essere stata scelta per quello che è nella realtà. In verità questo è un falso. Il lavoro che io ho dovuto fare con Antony di dirgli costantentemente tu non sei il personaggio e di farlo lavorare per far si che lui iniziasse un percorso verso il personaggio per farlo interiorizzare. Un lavoro complesso che si è svolto in modo molto semplice e che non aveva nessuna pretesa psicologica o sociale elaborata razionalmente ma semplicemente correggendo il comportamento, la gestualità, la voce del personaggio.”
Il film si apre con i due protagonisti che si fingono una famiglia in fuga per salvarsi dalla guerra, e si conclude con i due protagonisti diventati una vera famiglia ma ancora una volta in fuga per salvarsi dalla violenza della banlieue francese. Lei crede che possa essere la famiglia a salvarci?
“L’amore. Alla fine non è una fuga perchè lei sin dall’inizio vuole andare in Inghilterra a raggiungere la cugina, a dimostrazione che è l’amore che salva è che quest’uomo che ha sempre imposto le sue idee, abituato ad agire in un certo modo, alla fine asseconda il desiderio della donna di cui si è innamorato. E’ stata una fine molto dibattuta, questo epilogo, sono stato anche accusato di aver mostrato l’Inghilterra come terra di accoglienza che non è assolutamente, che poi non è Inghilterra, quella scena è talmente di finzione, talmente falsa che io ho girato quella scena in India, perchè volevo fosse un sole indiano a scaldarli e quindi è stata girata nell’entroterra, nel centro dell’India. Bisogna aspettare il 2050 per vedere un sole così bello e così tropicale a Londra.”
Noi non ci stupiamo più se un ingegnere o un laureato straniero viene a pulirci casa, ma ci stupiamo del fatto che uno come Dheepan possa avere quell’epilogo. Volevo chiederle se quel finale ha anche un significato politico, che abbia voluto farci riflettere su cos’è l’immigrazione oggi attraverso un film di genere.
“Sicuramente è un’affermazione politica ma queste persone, noi abbiamo una ricchezza che nemmeno ce ne rendiamo conto, queste persone che arrivano e che hanno vissuto situazioni assolutamente infernali, si sono salvati la pelle chissà quante volte e chissà con quale prezzo, che noi non potremo capire. La domanda è: che cosa fanno della violenza che hanno dentro di se, perchè l’hanno vissuta, l’hanno subita, l’hanno perpretata? I film sui vigilantes, di violenza, solitamente non mi interessano ma ho voluto inserirlo perchè quest’uomo che si mette la cuffiettina con i pupazzi per riuscire a vendere le rose, la violenza che ha visto ed ha assorbito, prima o poi risalterà fuori e che forma prenderà nel momento in cui tornerà in superficie?”
Nel film c’è un momento in cui il protagonista dice alla moglie “guarda fuori sembra di stare al cinema”. Il suo film sembra andare in direzione completamente opposta a qualsiasi ricostruzione di finzione tradizionale: ha lavorato con estrema naturalezza, con le luci naturali, questo montaggio più evolutivo che in passato. Quale è stata l’ebrezza della differenza rispetto al passato di lavorare in questo modo?
“La differenza nella forma è assolutamente vera ed è deliberata. Venivo da Un sapore di luce ed ossa, un film che è stato costruito su una sceneggiatura ben scritta e chiusa e di quel lavoro ne ho apprezzate le virtù ma ho anche avvertito che mi mancava qualcosa dopo quel lavoro. Con gli sceneggiatori, in questo caso, abbiamo stabilito che la sceneggiatura sarebbe stata sottoscritta, o meglio scritta meno rispetto alla normalità, lasciando una serie di cose da sviluppare. Il rapporto d’amore che si sviluppa tra Kalie e Antony, parte del rapporto con la bambina: abbiamo lasciato intenzionalmente aperta la scrittura che poi si è sviluppata successivamente. Un’intuizione in fondo molto giusta visto che lavoravamo con degli attori che non parlavano la nostra lingua quindi noi non comprendevamo loro e loro non comprendevano noi e che credo siano stati avvantaggiati a lavorare in una struttura elastica piuttosto che in una struttura rigida.”