Tratto dal secondo romanzo di Patricia Highsmith, “The price of salt” (1952), romanzo che la scrittrice, nonostante il grande successo dell’esordio, ebbe non poche difficoltà a pubblicare, riuscendo infine a farlo sotto pseudonimo, a causa del suo soggetto omosessuale in contrasto con la morale puritana dell’epoca, Carol ne rappresenta la messa in scena delicata, estremamente controllata e costruita per sottrazione delle emozioni trattenute che le due protagoniste provano.
Quattro anni dopo la miniserie Mildred Pierce, Todd Haynes torna dietro la macchina da presa per un melodramma elegante e raffinato, raccontando una passione tormentata tra due persone costrette a combattere contro i pregiudizi di una società perbenista incapace di accettare il loro amore. La pellicola riesce a puntare coraggiosamente il dito contro un mondo che, oggi come allora, vuole dire la sua su quali sentimenti possano essere accettabili e quali, invece, non lo siano, il bisogno di libertà e di felicità, cercate in una dimensione esclusivamente femminile. Siamo appena all’alba degli anni ’50, e Carol e Therese si affacciano già sulle rivoluzioni del decennio successivo. Non è davvero l’amore omosessuale a costituire il cuore pulsante del film, quanto l’emancipazione della femminilità in un contesto sociale opprimente, che riposa sulle finzioni.
La messa in scena è delicata e controllata, vive di emozioni trattenute. Le emozioni vengono lasciate filtrare solo in alcuni momenti sospesi. I personaggi del film sono sempre schermati da vetri, vengono riflessi in specchi, il loro vedere è sempre mediato da qualcos’altro ad enfatizzare il desiderio nell’atto stesso di guardare, oltre quello che vediamo in superficie. Non è solo questione di sospensioni, attese, dilatazioni. Non si tratta insomma solo di rendere le scene visivamente più belle, ma di smorzare le emozioni, infondere nello spettatore il desiderio sempre maggiore che la repressione dei sentimenti venga sconfitta, che le esistenze prendano a volare.
Col procedere del film avviene una sorta di evoluzione nelle due protagoniste: Carol sembra farsi più fragile, mentre la timida Therese acquisisce maggiore sicurezza di sé. E’ efficace in questo senso la metafora che passa attraverso la sua passione per la fotografia. La maturazione di Therese è, anche, una questione di capacità di inquadramento e messa fuoco: il suo percorso di identificazione personale passa attraverso la propria acutezza di sguardo. Therese non ha esperienza e non è preparata ai sentimenti che sente di provare ed è attraverso la macchina fotografica che impara a guardare prima Carol, che è il suo primo soggetto, e poi se stessa.
Carol, raccontato attraverso un lungo flashback di Therese, è un melodramma intimo, che scorre quasi interamente di dentro, si nasconde dietro ai volti e in un segreto che non può essere detto. L’opera riesce ad accende cuore e mente, avanzando contro le apparenze e lungo un’America che l’autore non esita a mostrare quietamente crudele, puritana, nascosta sempre dietro un’aria perbenista e assediata dalla fobia di tutto quello che è diverso. Le cose sono naturalmente cambiate dagli anni Cinquanta ma Haynes è interessato a quello che non cambia mai.