Se si volesse tirare fuori una morale da Bota Cafè di Iris Elezi e Thomas Logoreci basterebbero poche parole :” Le guerre non finiscono mai, si trasformano solamente”.
Amo e ammiro profondamente quel tipo di cinema europeo basato sul coraggio e non sulle influenze esterne. Parlo di quel tipo di coraggio che si ha quando si affrontano argomenti che rischiano di annoiare tremendamente lo spettatore, storie di interesse pubblico che non hanno la necessità di essere raccontate senza filtri.
Il punto forte dell’opera è il modo in cui sono stati trattati i vari drammi attraverso il suono, enfatizzandolo o addirittura eliminandolo completamente. Il rapporto che i protagonisti hanno con questo senso è trattato con molto rispetto, ho trovato molto tenere le scene in cui il suono dei fuochi di artificio e la musica vengono accolti dai personaggi con una vulnerabilità quasi bambinesca. Un modo intelligente di descrivere una popolazione ancora traumatizzata da un regime comunista.
Un’opera fin troppo rilassata e prolissa, con un finale abbastanza prevedibile, ma che tuttavia si nutre di questi aggettivi, che possono essere visti come difetti, per raccontare una metafora di 100 minuti sul bisogno di essere salvati per necessità e non per volontà. Un sinonimo di alterazione sensoriale dato da una trauma significativo come può essere quello di una dittatura o una guerra. Eventi traumatici che il più delle volte portano persone buone a fare scelte discutibili, anche solo per paura.