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Racconti di Cinema – Cop Land di James Mangold, con Sylvester Stallone, Ray Liotta, Harvey Keitel e Robert De Niro

Sì, è il turno di Cop Land.

Ebbene, oggi il suo regista, soggettista e sceneggiatore, James Mangold, è molto apprezzato a Hollywood, tutti i produttori lo cercano, è reduce dallo straordinario Logan, sta terminando la post-produzione di Ford v. Ferrari con Matt Damon e Christian Bale, preparandosi nei prossimi mesi anche a dirigere The Force da Don Winslow, scritto da David Mamet.

Dunque, un nome oramai collaudato della Settima Arte, un director imprescindibile per gli anni a venire. Sempre assolutamente da tenere d’occhio.

Ma con Cop Land, dopo il suo bell’esordio passato ingiustamente sotto silenzio, Dolly’s Restaurant con Liv Tyler e Pruitt Taylor Vince, era dunque soltanto al suo secondo film, e perciò stupisce davvero che per questa sua opera fosse riuscito ad assoldare un cast stratosferico di nomi importantissimi, degli A-listers del jet set, come si suol dire. Un parterre d’eccezione in cui, ribaldo, primeggia il protagonista Sylvester Stallone, attorniato da attori tipicamente scorsesiani, ovvero il beniamino per eccellenza di zio Marty, Robert De Niro (The Irishman), il turbolento Ray Liotta (Quei bravi ragazzi), il “maledetto” Harvey Keitel (Mean Streets, Taxi Driver, L’ultima tentazione di Cristo), il gangsteristico Frank “mafioso” Vincent (Casinò) e perfino la rediviva Cathy Moriarty (l’ammaliante Vickie di Toro scatenato), affiancati da altri nomi più o meno celebri, caratteristi o facce indimenticabili, come la ferrariana Annabella Sciorra (The Addiction – Vampiri a New York, New Rose Hotel), Peter Berg (oggi regista amatissimo), Robert Patrick (l’indistruttibile T-1000 di Terminator 2), Michael Rapaport, Noah Emmerich, Janeane Garofalo, Edie Falco (The Comedian).

A produrre Cop Land è stata la lodatissima, potente Miramax del patron Harvey Weinstein, anteriormente alla sua tramutazione nella Weinstein Company, molto prima (correva l’anno 1997) che il signor Harvey venisse travolto dall’imponente, disgraziato scandalo sessuale che gli ha fatto crollare un galattico impero finanziario, sbriciolandolo a livello di reputazione e portandolo a un fallimento epocale.

E quindi, in virtù di ciò, è altresì facilmente comprensibile che all’epoca Weinstein potesse permettersi di scegliere davvero tutti gli attori che gli andavano a genio. E, al di là del suo imperdonabile misfatto, va senza dubbio permanentemente tenuto in auge come uno dei maggiori producer, dal fiuto infallibile, della storia del Cinema. Ha scoperto e lanciato Quentin Tarantino, ad esempio, come sapete benissimo, e anche per ciò che concerne la carriera di James Mangold è indubitabile che vi sia stato il suo zampino, il suo ascendente e il suo autorevole influsso a inaugurarne il “boom”.

Cop Land è uscito a Ferragosto negli Stati Uniti, debuttando in anteprima europea con la sua première del 4 Settembre al Festival di Venezia nella sezione Fuori Concorso. E ancor piacevolmente rimembro, mentre scrivo questa recensione, quei giorni tiepidi e crepuscolari in laguna ove assistetti dal vivo in Sala Grande, emozionato e commosso, a tale suddetta proiezione speciale, alla presenza di Stallone e Liotta. Ma questi sono i miei ricordi personali d’una tarda, malinconica estate di più di vent’anni fa. E non voglio, certo, annoiarvi con le mie sentimentali memorie cinefile…

Trama:

ci troviamo nella sonnolenta cittadina di Garrison, nel New Jersey, a pochi chilometri da New York, oltre il fiume Hudson e il suo scintillante Ponte di Brooklyn.

Qui staziona una comunità, quasi autogestita, di poliziotti newyorkesi, e vive lo sceriffo Freddy Heflin (Sylvester Stallone), un uomo menomato da un orecchio che ha sempre ambito a diventare un poliziotto vero e invece, per colpa del suo invalidante handicap, si trova costretto semplicemente a monitorare svogliatamente questo sgarrupato centro abitato, svolgendo compiti di ordinaria amministrazione, sistemando le scartoffie e allentando l’invadente noia nell’emettere multe a chi infrange i limiti di velocità. Un’esistenza monotona di piatta, barbosissima routine quotidiana.

In una notte languida e apparentemente cheta, però, accade qualcosa di losco. Il nipote del capo della polizia Ray Donlan (Harvey Keitel), Murray Babitch (Michael Rapaport) viene dato ufficialmente per morto. Questo almeno è ciò che tostamente asserisce Dolan agl’inquirenti, il quale in tutta fermezza persuasiva riferisce loro d’aver visto coi propri occhi il ragazzo suicidarsi, gettandosi giù dal ponte George Washington

.

Il Tenente Moe Tilden (Robert De Niro), invece, non è affatto convinto di questa versione e vuole vederci chiaro. Così, provoca ripetutamente lo sceriffo Heflin affinché quest’ultimo possa svegliarsi dal torpore che gli sta annebbiando e obnubilando la logorata lucidità mentale e si possa mettere quanto prima sulle tracce della verità, sgominando i colpevoli. Facendo piazza pulita della corruzione e del marcio che, da tempo immemorabile, stagnante e appiccicoso, serpeggia a Garrison.

Per una resa dei conti spietata.

Perché, come recita la tagline della locandina e la frase promozionale del film, No One Is Above The Law.

Ovviamente, dopo Rocky e Rambo, Cop Land è il miglior film “di” Stallone (ingrassato appositamente svariati chili) e la sua prova è egregia. Fa decisamente centro nei panni del perdente disilluso Heflin, sordo da un orecchio, imperituro fan di Springsteen e pateticamente innamorato dell’irraggiungibile Liz (Sciorra). Che ascolta, abbracciato a lei, la melanconica, struggente ballata vespertina del Boss, Drive All Night. E poi, dopo l’ennesimo, vilissimo affronto, ritrova d’improvviso la grinta sua smarrita, imbracciando il fucile e dirigendosi, alle prime luci fioche dell’alba, a casa dei cattivi, come in un western contemporaneo d’abbagliante suggestione tonante.

Mereghetti, nel suo Dizionario dei film, sostiene che, seppur coeso e molto riuscito, il film ha parecchi cedimenti nel finale. No, il finale dinamitardo e al contempo pacato nella sua voluta lentezza, come appena detto, è perfettamente in linea con questa storia agrodolce di caduta e redenzione e il film regge benissimo le sue quasi due ore di durata, grazie a un approfondimento psicologico dei personaggi tutt’altro che superficiale e indifferente.

Ove Mangold, con sobrio gusto delle atmosfere periferiche di strada, sa usare i giusti toni decadentistici, incollandosi in segno d’adorazione sull’arrugginito, stanco corpaccione di Stallone e immortalando ogni espressività sfumata dei suoi occhi esangui e svigoriti, tramortiti da troppe delusioni invincibili, con calorosa, empatica, compenetrante armonia sibillina. Sin a illuminare corposamente ogni fotogramma, cadenzandolo nella cupa, mortifera e romanticamente glaciale fotografia di Eric Alan Edwards.

Siamo dalle parti del capolavoro.

About Stefano Falotico

Scrittore di numerosissimi romanzi di narrativa, poesia e saggistica, è un cinefilo che non si fa mancare nulla alla sua fame per il Cinema, scrutatore soprattutto a raggi x delle migliori news provenienti da Hollywood e dintorni.

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