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Racconti di Cinema – Taxi Driver di Martin Scorsese, con Robert De Niro, Jodie Foster, Harvey Keitel e Cybill Shepherd

Chi scrive questa recensione, cioè il sottoscritto, ritiene Taxi Driver l’invincibile, titanico film della sua vita. Quindi, comprenderete bene che sol vergare questa mia disamina mi strazia piacevolmente nella fulgidezza di un’estasiante ammirazione vertiginosa nei suoi riguardi.

Palma d’oro al Festival di Cannes, Taxi Driver è un film della durata di 1h e 54 min, una di quelle opere talmente folgoranti e potentissime da lasciare stordito chiunque alla sua prima visione. Contagiandolo irreversibilmente per sempre.  E la sua Palma d’oro, appunto, è stata sacrosanta, indiscutibile. Un film che ha sventrato ogni vetusta convenzione stilistica, assurgendo sin dapprincipio a vetta mastodontica della magnificenza più sanguinosamente viscerale. Un capolavoro indimenticabile, illuminante, profetico, così lungimirante nella sua perfetta, immutabile modernità da sbalordirci ancora oggi, a distanza di quarantadue anni dalla sua uscita.

E, a mio avviso, nonostante mi reputi orgogliosamente uno scorsesiano irriducibile, pur attestando che lo zio Marty di capolavori ne abbia firmati tanti, credo ineludibilmente che con Taxi Driver, nell’oramai remoto eppur ancora tonante 1976, il nostro insuperabile Scorsese avesse già firmato il suo capodopera imbattibile.

È la storia di Travis Bickle (Robert De Niro), tassista della giungla metropolitana di New York. Ex reduce del Vietnam, incurabilmente afflitto da insonnia. Un uomo immensamente solo, un nosferatuGod’s lonely man, un vampiro irredento e al contempo involontario, strambo redentore della sua anima vagante, ombra lui stesso del suo imperituro spettro impalpabilmente e liquidamente metafisico, strangolato dal vortice delle laconiche e asfissianti sue ansie meandriche, un evanescente loner che, durante il giorno, sta sempre in casa, guardando apaticamente la tv ed estemporaneamente placando la sua invincibile noia esistenziale recandosi nei cinemini a luci rosse. Perché lui deve orgasmizzarsi. Danzando fantasmatico nell’oceano di un doloroso, patibolare, eterno tormento, alla vana ricerca inattingibile del suo centro di gravità permanente, compresso dalla sua innata e dannata voglia imperterrita di un’omeostasi emozionale che forse non arriverà mai. Di notte, alienandosi nel fortilizio del suo abitacolo, non prendendo mai sonno, come un Caronte dantesco traghetta le anime dei passeggeri del suo tassì. Venendo spaventosamente a contatto con la feccia più lercia e corrotta di una città infernale e pestilenziale, viaggiando taciturno tra la folla come un martire buddista fra i lebbrosi, respirando il puzzo stantio di questa maleodorante, capricciosa, rivoltante, malfamata fauna e umanità degradata.

Nel suo continuo, suppliziante girovagare per New York, rimane ipnotizzato da una donna, Betsy (Cybill Shepherd), attivista elettorale di un partito che sta appoggiando il senatore Charles Palantine (Leonard Harris) alle presidenziali. Dopo molte titubanze, riesce ad approcciarla seppur in maniera assai insolita e buffonesca e, nonostante il suo pittoresco e strampalato corteggiamento, lei tutto sommato accetta di buon grado di uscire con lui. Ma, a causa della sua ingenuità, Travis miseramente fallisce e Betsy lo allontana in malo modo.

Così Travis, sempre più emarginato, si barrica del tutto nella solitudine ed esaspera la sua paranoica ossessione nei riguardi del senatore Palantine che ai suoi occhi incarna il male assoluto della regnante, incontrastata ipocrisia che domina la società. E, nel suo delirio, lo eleva a spauracchio paladinesco di tutto il suo disagio, attribuendogli la causa del suo insanabile, crescente, smisurato malessere.

Alla fine, travolto da una salvifica, lucida follia, in una notte buia prende il suo taxi e, in tutta scalmanata furia, come un lupo mannaro affamato di giustizia, si reca nella cupa zona periferica ove lavora la minorenne prostituta Iris (Jodie Foster), uccide il suo protettore (Harvey Keitel), e compie una violentissima, efferata irruzione nel covo della ragazza. Facendo una strage, trucidando l’affittacamere e un mafioso ebreo. Un esplosivo, zampillante bagno di sangue catartico…

Detonazione di ogni sua ansia deflagrata.

Travis libera Iris dallo sfruttamento e dalla prostituzione, e per il suo gesto viene addirittura ringraziato ed eletto eroe cittadino.

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Un capolavoro assoluto, ribadiamolo. Con un De Niro d’antologia, in una delle sue prove più strabilianti che hanno contribuito a sancirne il mito attoriale. Baciato dalla grazia, ispirato come non mai. Leggendario.

Con uno Scorsese magistrale alla regia e la geniale sceneggiatura di Paul Schrader. Che ha dichiarato di aver preso spunto dall’europeo esistenzialismo letterario, da La nausea di Sartre, dalle torbide atmosfere de Lo straniero di Albert Camus e da quelle luciferine e angoscianti de Le memorie del sottosuolo di Dostoesvkij.

Un film avvalsosi della prodigiosa fotografia di Michael Chapman, che ha compiuto un eccelso lavoro sfavillante, giocando sulle iridescenze delle notturne, rosse e infiammanti luci al neon e con i bagliori chiaroscurali, vividamente accesi e tetri delle intermittenze semaforiche e delle accecanti insegne fosforescenti. Un finissimo gioco fotografico di riflettanza e ammalianti rifrazioni.

Taxi Driver è incantatoriamente musicato dalla colonna sonora magicamente lirica dell’hitchcockiano-wellesiano Bernard Herrmann.

Ma chi è Travis Bickle? Uno psicotico, un uomo in piena caduta libera nella sua cristologica mental illness, un pericoloso disadattato, un santo, un mistico, un diabolico angelo sceso dal cielo? Un ascetico, un fuori di testa oppure un messianico salvatore?

È uno dei più misteriosi interrogativi irrisolvibili che rendono questo film inafferrabilmente stupefacente.

Tornando a De Niro che, per questo ruolo fu candidato all’Oscar, ancora stupisce che sia stato battuto agli Academy Award dal pur bravissimo ma indubbiamente assai più trascurabile Peter Finch di Quinto potere. Peraltro, Oscar postumo, quasi alla carriera.

E che Taxi Driver sia stato sconfitto come Miglior Film dell’anno dal certamente importantissimo Rocky con Stallone, un cult epocale, sì, ma cinematograficamente molto inferiore.

About Stefano Falotico

Scrittore di numerosissimi romanzi di narrativa, poesia e saggistica, è un cinefilo che non si fa mancare nulla alla sua fame per il Cinema, scrutatore soprattutto a raggi x delle migliori news provenienti da Hollywood e dintorni.

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