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La vendetta di un uomo tranquillo – Abbiamo incontrato il regista Raúl Arévalo

All’esordio dietro la macchina da presa, Raúl Arévalo si è aggiudica ben quattro Goya con il suo La vendetta di un uomo tranquillo che arriva nelle nostre sale il 30 marzo distribuito da BIM. Abbiamo incontrato in una piacevole atmosfera l’attore e regista spagnolo.

Raúl Arévalo: 37 anni, da 10 anni volto del cinema spagnolo, visto in titoli come Ballata dell’odio e dell’amore, Gli amanti passeggeri e La Isla Minima, al suo debutto dietro la macchina da presa con il suo La vendetta di un uomo tranquillo, con il quale agli ultimi Goya, premi Oscar del cinema spagnolo, ha vinto ben quattro premi: miglior film, miglior sceneggiatura, miglior attore non protagonista e miglior regista esordiente.

Incontriamo Raúl Arévalo a Roma in una giornata già primaverile e nell’accogliente location del Sofitel Hotel ci facciamo raccontare come è nata l’idea di questo thriller crudo ed asciutto: “Già da bambino volevo fare il regista, ancor prima di fare l’attore. Ogni lavoro che ho fatto è stato per me una scuola di regia, una scuola per imparare. Poi 8 anni fa è venuta fuori questa storia, nata da una conversazione rubata nel bar di mio padre. Perché mio padre aveva un bar simile a quello di Curro. In questa conversazione stavano commentando una notizia al tg: un uomo confessò che dinanzi ad una storia simile lui avrebbe preso un fucile e avrebbe ammazzato tutti. L’idea di una vendetta è trita e ritrita, vista e rivista, ma volevo raccontarla in modo crudo e realista. Cercare di capire cosa significhi portare a compimento un sentimento di odio nei confronti di chi ci ha fatto del male.”

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Guardando il film mi è venuto in mente Cane di Paglia di Sam Peckinpah, è un film a cui ha pensato e a cui si è ispirato?

“Si per una parte della pellicola, nella parte estetica e anche nel tipo di violenza secca, cruda e diretta. Però le ispirazioni sono state molteplici. Come il francese Jacques Audiard, i belgi i fratelli Dardenne, Carlos Saura e l’italiano Matteo Garrone.”

Lo straordinario protagonista de La vendetta di un uomo tranquillo, Antonio de la Torre, riesce a mascherare quest’odio che da anni lo consuma. Come ha lavorato con gli attori?

“Gli attori sono amici miei, cosa di non poco conto. Io sono attore e questo mi ha aiutato nella realizzazione del film. Gli sguardi e i volti erano fondamentali, avevo bisogno di persone che avessero un volto normale, da vicino di casa, e anche di una certa età e questo fatto ha creato difficoltà produttive perché tutti i produttori volevano attori giovani e belli, che bucassero lo schermo in televisione. Ma non poteva andare così. Ho difeso la mia idea di un volto che potesse e sapesse esprimersi nel silenzio, proprio come i volti di registi come i Dardenne e lo stesso Garrone, con Gomorra. Avevo bisogno di attori che sapessero portarsi sulle spalle il peso della vita.”

Ho letto che ha ambientato il film in luoghi che lei familiari. Come mai questa scelta?

“Io penso che si debba sempre parlare di ciò che si conosce meglio. Queste vicende e questo tema fortunatamente non mi riguarda e spero non mi coinvolga mai. Ma conoscevo le atmosfere, e ho voluto ambientarle in luoghi in cui sono cresciuto, nel modo di parlare delle persone che conosco. Questo perché difendo il cinema dell’identità, il cinema che si conosce, solo in questo modo si riesce ad essere universali.”

Come ha lavorato per l’estetica del film. Alcune volte sembra che allo spettatore sia concesso avvicinarsi di più ai personaggi, altre volte invece è come se fosse completamente lontano. Come ha deciso questa struttura?

“Dipende dal momento del  film: all’inizio sto con la macchina da presa addosso al personaggio perchè mi interessa di più seguire il suo pensiero, come se il dialogo non fosse rilevante. Poi man mano che il film diviene di genere allora si apre di più. Con il fattore vendetta, invece, ho operato al contrario. E’ più esplicita all’inizio e poi mano a mano diventa una violenza più nascosta.”

Lei ha lavorato con Almodovar. Ha qualche ricordo in particolare o qualche aneddoto relativo a quel periodo? E cosa ha preso dai registi con i quali ha lavorato per la sua prima volta come regista?

“Ho imparato da tutti i registi con cui ho lavorato, ed è stato un processo che è durato talmente tanti anni che ormai è divenuto un insieme di cose da cui mi viene difficile identificare qualcosa di specifico. Ho imparato da tutti nel bene e nel male, e l’ho fatto mio. Nel caso di Almodovar tutto ciò vale doppiamente. Pedro è inimitabile. Io gli voglio molto bene, gli devo molto e mi ha seguito anche con le riprese di questo mio primo film. Il suo è un linguaggio personale, particolare, impossibile da imitare.”

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Guardando il film ho pensato: chissà quanto ci metteranno a farne un remake hollywoodiano. Ci sono state proposte?

“Quando siamo andati al Festival di Toronto alcune persone hanno dimostrato interesse. So che la produttrice è entrata in contatto con un paio di persone. Però sul piano personale questa storia dei remake mi suscita un po’ di stranezza, d’altronde gli americani hanno tutti i soldi a disposizione per acquistare tutti i diritti che vogliono. Certo, preferirei che si vedesse il mio film negli altri Paesi, rispetto ad un remake, ma sarebbe divertente vedere un attore americano in un simile ruolo. Però se proprio dovessero fare un remake, l’essenza profonda dell’opera si capterebbe sicuramente di più in America Latina o in Italia.”

Ha mai pensato di recitare lei stesso il ruolo del protagonista del suo film?

“No, non mi attirava l’idea, e poi non avrei neanche saputo come riuscirci. Non so come facciano gli attori che si dirigono. Immagini si avvalgano di assistenti. Però a quel punto non mi divertirei più. Facendo il regista ho scoperto che mi piace comandare e dire agli altri cosa fare. Come attore mi piace essere diretto, comandato, so obbedire agli ordini, ma come regista voglio che siano gli altri a fare quel che dico loro. Visto che nella vita reale non riesco ad impormi, almeno posso farlo dietro la macchina da presa.”

Che emozione le ha dato vincere il Goya con l’opera prima?
“Il mio sogno era finire il mio film dopo 8 anni d’attesa. Già quello, onestamente, mi era bastato. Poi vincere anche un Goya come miglior film, sceneggiatore e regista è andato oltre ogni le più rosee aspettative. E’ stato un po’ come se una squadra di Serie B vincesse la Champions League. I miei sfidanti erano Rodrigo Sorogoyen, Bayona, Almodovar e Alberto Rodríguez. Registi di serie A, è stata una sorpresa talmente grande che devo ancora elaborarla. Ha vinto un piccolo film, rispetto agli altri grandi film, e questi premi ci hanno dato la possibilità di girare l’Europa. Ora il film non uscirà solo in Italia ma anche in Francia il mese prossimo.”

Un trionfo. Ma Raúl Arévalo è già al lavoro per l’opera seconda: “Ci sto lavorando da circa un mese, l’idea c’è, non posso dirvi molto, ma non sarà un thriller ne’ una commedia. Sarà un dramma.”

Leggi la recensione del Film

About Federica Rizzo

Campana doc, si laurea in Scienze delle Comunicazioni all'Università degli Studi di Salerno. Web & Social Media Marketer, appassionata di cinema, serie tv e tv, entra a far parte della famiglia DarumaView l'anno scorso e ancora resiste. Internauta curiosa e disperata, giocatrice di Pallavolo in pensione, spera sempre di fare con passione ciò che ama e di amare follemente ciò che fa.

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