Ispirato a un avvenimento realmente accaduto in alcune Università americane, in cui gli studenti hanno dovuto negare la propria fede dietro pressione del loro insegnante, God’s not Dead pone le sue base soprattutto sull’intensa lotta intellettuale e morale tra Josh e il suo professore di filosofia volta a dimostrare l’esistenza di Dio, e innesca un dibattito su cosa ognuno di noi è disposto a rischiare per difendere quello in cui crede.
God’s not Dead intreccia storie con protagonisti diversi, provenienti da diverse esperienze e con diverse prospettive di vita: nel film ognuno si pone degli interrogativi nei confronti della fede e compie un percorso di maturazione interiore, talvolta anche doloroso, che forse avrebbe dovuto avere uno sviluppo diverso all’interno del film. Poco appassionante, se non in alcuni momenti più approfonditi, l’opera porta a maturazione gli interrogativi che da sempre attanagliano gli uomini, credenti e non: come può esistere un Dio che permette la sofferenza? Se Dio esiste davvero perché non fa nulla per fermare tutto il male che continua a svilupparsi nel mondo? Dimostrando quanto sia importante lottare per difendere i propri ideali e valori, il messaggio più forte del film deriva proprio dalla possibilità di ragionare autonomamente e di scegliere senza influenze di nessun genere a chi e in cosa credere.
Ma se nella storia principale sono ben argomentati e dosati argomenti ed emozioni, il film vacilla nelle storie di contorno. Troppo didascaliche, semplicistiche e banali, con la preghiera a Dio per far partire la macchina, con la donna cinica che si apre a Dio appena scopre di essere malata di cancro, con la madre in preda alla demenza senile che riacquista lucidità per spiegare la fede al figlio Mark malato di successo. E se Josh lascia ai suoi compagni la libertà di credere o non credere, nel resto del film, fino alla conversione in punto di morte del professor Radisson, gli autori sembrano invece pretendere dallo spettatore una scelta di campo ben precisa.